29
April
2024
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Vienna, inizio Novecento – Il giovane Victor Gruen, l’architetto che negli anni Cinquanta darà vita al primo moderno centro commerciale, si aggira per le strade della città animato da una grande passione: il cabaret.
Una forma di spettacolo effimera, così breve e necessariamente incisiva e di impatto, destinata a lasciare una forte impronta sulla sua attività di architetto.
Come racconta M. Jeffrey Hardwick nella sua biografia Mall Maker – Victor Gruen, Architect of an American Dream, l’ascesa del nazismo costringe Gruen in quanto ebreo a lasciare l’Europa e a rifugiarsi negli Stati Uniti, dove inizia la sua attività professionale disegnando strip commerciali. In un vortice competitivo tra chi realizza la facciata più scenografica, Gruen torna a quell’idea di mondo come immenso palcoscenico e di architettura come spettacolo.
Mentre lavora nel mondo del department store, in America si configurano i primi prototipi di shopping mall che portano all’ideazione da parte dell’architetto viennese del Southdale Center, il primo centro commerciale completamente chiuso e climatizzato degli Stati Uniti (ne abbiamo già parlato qui). La ricerca e il pensiero di Gruen non sono votati al consumo e al profitto economico, bensì alla socializzazione.
La sua spinta progettuale è animata dal ripristino di una condizione dell’urbano in grado costruire un reale senso di comunità.
Il modello riscuote inizialmente un grande successo, ma la deriva capitalistica e seriale corrompe quell’iniziale attenzione al lato umano. Il centro commerciale si trasforma in una macchina per la produzione e il ricavo, generando un downgrade qualitativo che porta Gruen a rinnegare la paternità progettuale.
L’architetto viennese farà così ritorno in Europa, disilluso dal suo sogno americano. Eppure oggi – in questa fase di forte revisione del formato del centro commerciale – ritroviamo in quel principio di bontà ereditato da Gruen, incentrato sul benessere ambientale e sui bisogni reali delle persone, un insegnamento prezioso: abbracciare la percezione umana e la dimensione emotiva sembra essere la chiave per accogliere il cambiamento in atto.
Adolfo Suarez
Lavora disegnando, sempre e comunque, e sa ritagliarsi spazi di silenzio anche nelle situazioni più rumorose. Questo lo porta a una visione dei problemi sempre approfondita, a volte anche inaspettata, che contribuisce a generare quel conflicto positivo che lo porta a cercare sempre soluzioni migliori.
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