04
April
2023
Tempo di lettura:
5 minuti
Ludwig Mies van der Rohe
Abbiamo liberato il dialogo dall’imperativo del compromesso e dall’urgenza della reciproca comprensione. Nessun accordo da trovare, nessuna via di mezzo da ricercare. Ci siamo semplicemente messi in ascolto delle “vite degli altri”, delle storie di quei mondi che confinano con il nostro del Retail, per il piacere e la curiosità di guardare la realtà da punti di vista inediti.
Per il nostro programma di pillole sul mixed use partiamo dalla dimensione più ampia. Con Marco Amosso, direttore di L22 Urban & Building, parliamo di città. Affrontare il tema del mixed use attraverso una lettura urbana è dovuto, perché la città è sempre stata la metafora di riferimento di qualsiasi progetto, anche e soprattutto Retail, che voglia riprodurre nei suoi spazi architettonici una vitalità eterogenea, nei tempi d’uso e nelle funzioni previste.
Buona lettura!
Adolfo
Se la città è il luogo che compone tutte le funzioni possibili, mescolando le diverse dimensioni dell’abitare, cosa significa parlare di mixed use e città?
Se pensiamo al mixed use come il contrario dell’uso specialistico, monoseriale, dove retail, hospitality, uffici, residenze sono separati, possiamo dire che in Italia, e generalmente in Europa, siamo in una posizione privilegiata. La città europea è sempre stata, storicamente, ad uso misto, almeno nei suoi centri urbani.
Oggi è un termine molto presente nelle nostre agende di progettisti, ma il tema fondamentale è come farlo. Diverso, per esempio, è declinarlo per sezioni monofunzionali, affiancate tra loro in orizzontale o impilate in verticale, o per ibridazione. Il primo modo è più tradizionale, in un certo senso, e anche più facilmente gestibile. Ma oggi è interessante l’ibridazione, che non è un semplice accostamento di funzioni e modi d’uso, ma qualcosa che per vocazione o necessità condensa quell’eterogeneità in un’unità di tempo e di luogo. Con tutte le questioni di convivenza reale che ciò comporta, questo tema è di fatto una rappresentazione della nostra complessità vitale.
Centro o periferia, dove ha più senso? Ovviamente il luogo che ne ha meno bisogno è il centro urbano, per un evidente surplus di servizi che già sono presenti. Ha più senso svilupparlo dove mancano elementi di contorno, dove c’è bisogno di mescolare servizi, cultura, svago, ecc., in quei luoghi che sono in definitiva il lascito più critico, perché monofunzionale, dell’urbanistica moderna.
Un centro commerciale periferico può trasformarsi ad uso misto?
Un centro commerciale esistente può certo trasformarsi accogliendo altre funzioni, per esempio coworking per commuting brevi, servizi culturali e alla persona (che ci sono già, tra l’altro), anche residenza in teoria. Tecnicamente serve superare alcuni vincoli urbanistici, ma già oggi stanno cambiando poiché non c’è più la monofunzionalità di un tempo e l’urbanistica ha iniziato ad accettare la mescolanza.
Qual è il ruolo effettivo dell’urbanistica?
L’urbanistica è uno strumento politico. Milano per esempio ha liberalizzato tutto, tranne l’industria, tutto il resto è compatibile e i cambi funzionali sono spesso a costo zero o molto basso. Passare dal produttivo al residenziale “costa” solo, al di là degli OO.UU., la monetizzazione degli standard per il 18% della SL! Ma anche nei comuni minori le aree di completamento sono molto più ibride e trasversali. Significa che il processo è incentivato. È una scelta politica fatta nell’ottica di non consumo di territorio: differenziare e densificare l’esistente.
Inoltre, si è ridotta la capacità edificatoria del terreno, che ha valore economico proporzionale a quanto ci puoi costruire sopra. Oggi ci confrontiamo con un indice dello 0,35 su tutto il territorio milanese. Bloccando quel parametro quantitativo, necessariamente acquisiscono più valore altri indici, qualitativi, cioè il mix di funzioni che inserisci e la sua capacità attrattiva. Un mix che, se ben composto, ha anche capacità di mitigazione dei rischi nel tempo, come una differenziazione degli asset di investimento. Il mixed use ha anche questo valore.
Come declinare questi criteri alla scala dell’edificio (commerciale magari)?
Si può percorrere una diversificazione e densificazione simile, anche in un centro commerciale, inserendo altri servizi, uffici, hospitality, forse anche residenza. In fondo la classica maglia strutturale di un centro commerciale – 8 x 8 metri x 6 d’altezza – , così come quella produttiva ben prima, ha dato storicamente vita alla tipologia del “loft”, dove si ibrida lavoro e residenza. Per questo la struttura di un centro commerciale potrebbe avere un grande potenziale, perché non è ottimizzata, ha un certo grado di “universalità” strutturale che può agevolare le trasformazioni. Forse è questo il criterio generale per affrontare qualsiasi progetto in tempi di incertezza come questi.
Parafrasando il commento di Mies su Hugo Haring potremmo dire: “Non ottimizzare, Hugo, così puoi fare di tutto!”. Poi il tema reale è: andrei a viverci? Quale modello insediativo viene proposto? Può diventare un polo intorno al quale costruire nuove densità? È questo il tema strettamente correlato: una questione di attrattiva, di creazione di paesaggio (urbano) che non è solo qualità dell’abitare ma anche un fattore di efficientamento di sistema.
Marco Amosso
Torinese di nascita, piemontese delle Langhe, grande passione per il cibo e il buon vino: dopo l’architettura ovviamente! Marco l’apprende nei più importanti studi londinesi, fresco di laurea, e poi l’affina con Renzo Piano, eletto a maestro, e il suo “Building Workshop” dove lavora per tre anni cimentandosi con la grande dimensione. Il suo amore per il fare e per il cantiere nasce lì e non lo abbandona più.
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Paneburro è la newsletter mensile di Adolfo Suarez che raccoglie pensieri, riflessioni e suggestioni sul mondo del Retail. Storie e visioni del contemporaneo condite con il poco che abbiamo, che poi è l’essenziale. Un po’ alla bread&butter, come direbbero gli Inglesi, ma sempre con il nostro tocco creativo.
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